FICO: un’incredibile occasione persa.

FICO, davvero un’occasione (d’oro) sprecata.

Eppure era nato sotto ottimi auspici il progetto di Oscar Farinetti, che voleva espandere la logica degli Eataly store e richiamare quella dell’EXPO di Milano del 2015.

Ne avevamo parlato in un precedente post, dove raccontavamo che cosa fosse e che cosa potersi aspettare da FICO.

Purtroppo, però, le promesse iniziali non sono state rispettate. Un progetto tanto interessante e di potenziale quanto ambizioso e complesso quello di FICO.

Risultato?

Crisi, crisi severa, con fuggi fuggi dei grandi brand del food inizialmente coinvolti e dei consumatori.

Certo, il Covid non ha aiutato, ma la pandemia non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco.

Nel frattempo, ha mollato anche Farinetti, andato in seria difficoltà anche sul progetto madre, quello di Eataly.

L’idea iniziale era decisamente buona, intrigante, come raccontato dall’acronimo alla base del brand.
F.I.C.O. sta infatti per Fabbrica Italiana COntadina.

Un nome, una missione, molto chiara:
✅ rappresentare la ricchezza agroalimentare del nostro meraviglioso Paese;
✅ mettere in scena la filiera italiana di qualità, dal contadino (appunto) ai grandi brand che arrivano nel nostro piatto;
✅ aiutare il consumatore a capire cosa ci sia dietro il food di livello, a partire dai territori e dalle loro vocazioni.

Come dicevamo, un’operazione nobile, bellissima (per molti aspetti, “di interesse pubblico”), ma estremamente complicata. E costosa.
Con una promessa del genere l’asticella va in alto e non puoi sbagliare

Nella sua prima vita, FICO è scivolato soprattutto sul fronte dell’autenticità, finendo per essere un progetto a metà. Un “vorrei ma non posso”.

Autenticità significa una serie di cose:
✅ fattori d’atmosfera (come rappresento quello che voglio raccontarti);
✅ intrattenimento (come ti coinvolgo nella storia che voglio raccontarti);
✅ attori coinvolti (da chi ti faccio raccontare questa storia);
✅ prodotti (quali prove ti do che la storia regga);
✅ esperienze di gusto (come chiudo il cerchio della narrazione).

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Su questi fronti, invece, FICO è clamorosamente inciampato, con una distanza forte fra promessa e prova dei fatti.
Del resto, il successo delle imprese si gioca proprio sui “momenti della verità”.

Che cosa non ha funzionato di preciso?

Ad esempio:
✅ tanto colore, tanta scena, ma poco contatto con la natura tanto evocata;
✅ mondo contadino? Poca roba. Qualche “sintesi artificiale” (non bastanno pannelli informativi e touch screen…), qualche animaletto qua e là e nulla più;
✅ prodotti “dei territori” e chicche? No, poco più di un “riassunto di un Eataly, con qualcosa attorno”;
✅ e le esperienze di gusto? Qualche tentativo interessante, ma per il resto più scena che sostanza

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Non poteva funzionare.

E cosa hanno fatto per invertire la rotta?
Hanno fatto molto peggio, si potrebbe dire.

Perché?

Perchè per salvare capre e cavoli, hanno messo il biglietto d’ingresso al parco.

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Non che sia un errore di per sè, anzi, ci può stare in linea di principio.

Però, se chiedi il prezzo del biglietto, devi essere poi in grado di offrire un’esperienza, un’esperienza di gusto a 360 gradi. Un’esperienza memorabile.
Un’esperienza che non abbia eguali. Un’esperienza che non possa essere paragonata nemmeno per un attimo al giro della domenica in uno dei tanti anonimi centri commerciali che popolano le nostre città.

E invece, nel nuovo corso di FICO paghi e ricevi anche meno di prima, perchè:
✅ molti brand di prestigio, come dicevamo, sono fuggiti;
✅ i tanti food truck che animavano il parco (era decisamente un plus su cui lavorare) sono spariti;
✅ la qualità dell’offerta food si è ulteriormente abbassata (è possibile promettere fish&chips e poi proporre delle simil-croccole Findus?)
✅ il percorso esperienziale si è ridotto, per far spazio al Luna Farm”, il parco giochi per i più piccoli.

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“Be’, che c’è di male?”
potrebbe dire qualcuno. “Figo il luna park del cibo!”.

Sì, tendenzialmente può essere molto interessante, se non fosse che il Luna Farm è “a parte”. E’ fisicamente attaccato a FICO, ma devi pagarlo a parte. E’ un’altra cosa.

Ma come?! Che amarezza…

Che cosa ci insegna questo caso?

Che bisogna avere le idee chiare. E che il modello di business è tutto. Che non si gioca con la leva del prezzo senza il prodotto.
Altrimenti il castello crolla, inevitabilmente.
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